Gabriel Orozco

E’ importante avere un senso di meraviglia, di stupore di fronte al mondo che ci circonda. L’arte può aiutarci a mantenere vivo questo senso di meraviglia, offrendoci nuovi modi di guardare e interpretare la realtà.

Horses Running Endlessly, 1995

GABRIEL-OROZCO-dark wave - 2006

Dark Wawe, 2006

un po’ di gossip…

Estratto dal libro di Francesco Bonami, Il Bonami dell’arte (Electa)
Gabriel Orozco appartiene a quella categoria di amici cari e intimi che si sono purtroppo persi sulla strada del successo, del denaro e del potere. Di chi sia la colpa è difficile dirlo. Un po’ sua, un po’ mia, vittima inevitabile di quell’invidia che arriva quando un amico che tu hai sostenuto diventa ricco e famoso e anche un po’ stronzo nei tuoi confronti.

Sta di fatto che con Orozco, un tempo vicino di casa e compagno di passeggiate nell’East Village di New York, non ci si parla più. La mia colpa, come ho detto motivata in piccola parte dall’invidia o forse meglio dire dalla gelosia, è stata quella di mettere per iscritto le debolezze dell’artista messicano, più umane che artistiche. L’ho chiamato “ethnic chic”, definizione che non ha gradito e che mi è costata pure l’epiteto, del tutto ingiustificato, di razzista.
Figuriamoci. Ma come diceva Caterina Caselli “la verità ti fa male, lo so”. A Orozco la verità deve aver fatto un po’ di male e io, sapendolo, l’ho detta, ma ha fatto male pure a me. Perché con Gabriel momenti belli ne abbiamo passati tanti e ci siamo fatti anche grosse risate, cosa rara nel mondo dell’arte. Mi chiedo quindi se sia valsa la pena per questa strana cosa che si chiama “coraggio di dire le cose come stanno” di mandare a farsi fottere una relazione umana che qualcosa valeva.
Però mettetevi nei miei panni. La testa, volendo mostrare una scatola da scarpe vuota alla Biennale di Venezia del 1993, l’avevo rischiata io. Quella scatola l’avevo pure esposta in uno spazio sproporzionato all’esigenza dell’oggetto. Vedere scritto su un’etichetta del MoMA di New York, in occasione della retrospettiva di Orozco, che l’artista aveva mostrato la famosa scatola come protesta per l’angusto spazio offertogli dal curatore mi ha fatto proprio montare la mosca al naso.
Così, quando mi è stato chiesto di scrivere un articolo per la rivista ufficiale della Tate Modern di Londra, sempre in occasione di una grande mostra di Orozco, mi sono tolto qualche soddisfazione, raccontando quello che pensavo. Da lì è iniziato il declino dell’amicizia, che poi si è consumato con “ethnic chic” che lui proprio non deve avermi perdonato, avendo colto, meschinamente e crudelmente, nel segno.

FRANCESCO BONAMI