Young British Art

1988 | YOUNG BRITISH ART O BRITART. LO SPIRITO DISSACRATORIO DELLA GIOVENTÙ.

 La young british art nasce con la mostra Freeze, organizzata nell’inverno 1988-89 in un edificio dismesso dei Dockland londinesi da un gruppo di sedici studenti del Goldsmiths College guidato da Damien Hirst. Il successo riscosso da questa operazione di auto-promozione porta nel giro di un decennio alla ribalta un gruppo eterogeneo di giovani artisti, che preferisce programmaticamente autofinanziarsi o ricorrere a sponsor e committenze private, piuttosto che ai finanziamenti pubblici di organismi conservatori. Questi artisti, tra i quali si ricordano Gary Hume, Anya Gallaccio, Angus Fairhurst, Mat Collishaw, Tracy Emin, Jake and Dinos Chapman, Jenny Saville, non sono considerati un movimento omogeneo per stile o tematiche comuni, quanto piuttosto i rappresentanti di un certo atteggiamento mentale affermatosi alla fine degli anni ottanta, caratterizzato da un forte spirito indipendente e dissacratorio che trova presto appoggio nell’imprenditorialità del pubblicitario e collezionista Charles Saatchi. Nata dall’incontro tra questi e il sistema delle scuole d’arte inglesi, la young british art ottiene riconoscimento ufficiale, prima, con l’assegnazione a Hirst del Turner Prize nel 1992 e con la XLV Biennale di Venezia del 1993; poi con la mostra Sensation del 1997 presso la National Gallery di Londra. La sua affermazione sulla scena artistica internazionale e sul mercato è invece decretata nel 2001 dalla mostra Century City alla Tate Modern di Londra, dove opere di Mona Hatoum, Sarah Lucas, Ron Mueck, Chris Ofili, Fiona Rae e Rachel Whiteread sono esposte quali risultati esemplari raggiunti dalla contemporanea ricerca londinese, celebrata come il nuovo centro per le arti dopo Roma, Parigi e New York. 

Preoccupati sempre meno dell’impossibilità di essere “originali” e più della presentazione dell’opera, gli young british artist considerano la pratica artistica come un’attività intimamente correlata a tutte le componenti dell’universo mediatico – dal cinema alla pubblicità alla televisione – celebrato da Jean Boudrillard in Simulacra and simulation [1983]. Da qui l’interesse per la dinamica della proiezione e per l’atto fisico del guardare. Un universo ibrido, continuamente contaminato dalla cultura circostante, per il quale si può produrre solo un’arte ugualmente “impura”, tesa non più a rappresentare qualcosa che esiste nella realtà, ma a una simulazione che ha il potere di modellare il reale. In tal senso la ricerca di grandeur o la sfrontata teatralità, che contraddistingue alcune opere, risponde alla necessità di costringere le immagini dell’arte ad avere un impatto ancora più forte, nonostante o forse proprio in virtù del loro contenuto apparentemente banale. Al di là del gesto accattivante, provocatorio o d’effetto, le opere degli young british artist posseggono capacità di risonanza concettuale e, soprattutto, grande raffinatezza formale, come mostrano le appropriazioni cinematografiche di Douglas Gordon e i film di Steve McQueen: vere e proprie meditazioni sulla storia del cinema, rivisitazioni non solo di vecchi film ma anche di certe tecniche della cinematografia strutturalista degli anni sessanta e settanta.

 Francesca Franco